I fiori di Kirkuk – Una storia d’amore nell’Iraq di Saddam Hussein
I fiori di Kirkuk è quasi certamente il film di un regista curdo più conosciuto in Italia, Fariborz Kamkari, purtroppo però non è un gran film. Un lungometraggio con una trama in stile Venuto al mondo ma con meno cuore, minor capacità emotiva e una storia scritta attraverso un peccato originale nei primi cinque minuti in grado di ammazzare il film: il flash forward.
La storia è molto lineare: un giovane medico di origine araba, Najla, torna dall’Italia nel nord dell’Iraq nell’ultimo anno di conflitto con l’Iran. La donna è in cerca di Sherko, collega in Italia e amante, tornato tra la sua popolazione, i curdi, con la richiesta di dimenticarlo.
Najla lo cerca e lo trova, scoprendo la condizione pietosa in cui versa la popolazione curda, accusata di tradire la nazione appoggiando l’Iran durante la guerra. Lei, araba e con una famiglia vicina al regime di Saddam, si trova a dover far fronte a un conflitto tanto esterno quanto dentro di sé: tra la deontologia di medico, l’amore per Sherko, il rischio di condanna a morte per alto tradimento e l’onore della famiglia da rispettare (raccontato così male da rendere inconsistente la scelta finale della donna), Najla deve districarsi in un contesto sociale sempre più repressivo e violento.
L’amore impossibile per Sherko viene ostacolato dal corso degli eventi e dalla natura del regime rappresentato in questa storia da Mokhtar, un tenente dell’esercito ossessionato da Najla tanto da credere di poter decidere quale sia il bene della donna. Il personaggio di Mokhtar, interpretato da Mohamed Zouaoui è l’elemento costruito con maggior successo di tutto il film.
Il lungometraggio vive troncato da una scellerata scelta di montaggio e/o sceneggiatura: far sapere allo spettatore la sorte della protagonista ancor prima di presentarla. Una scelta che poteva essere vincente se all’interno della pellicola si fosse costruito in maniera impeccabile e originale il percorso che porta alla scena in questione, cosa che purtoppo il regista non fa. Senza costruzione e struggimento del personaggio a spiegare il perché di quello che si vede, il film nasce debole e si conclude debole.
Le critiche al film sono necessarie se lo si vuole guardare in quanto opera cinematografica, non se si è interessati solamente alla storia che racconta. Se infatti l’obiettivo è conoscere maggiormente la condizione in cui versavano i curdi sotto il regime di Saddam Hussein, se si vuole conoscere delle pulizie etniche, della vendita dei curdi ai Paesi del Golfo e dell’odio sistematico riversato sulla popolazione curda, il film è un ottimo inizio. Non lo è se si ha qualche velleità critica.
Luigi Toninelli