There Is No Evil: la vittoria della resistenza del cinema iraniano alla pena di morte
Sheytan vojud nadarad (There Is No Evil, Il male non esiste) di Mohammad Rasoulof è il film che ha vinto l’Orso d’oro a Berlino nel 2020. A ritirare il premio però è stata la figlia Baran poiché al regista è vietato di uscire dall’Iran dal 2017, quando gli venne sequestrato il passaporto al ritorno dal Festival di Cannes per A Man of Integrity che aveva fatto infuriare la censura nazionale. Le autorità iraniane gli avevano già impedito in passato di girare film che andassero contro i principi della Repubblica islamica e nel 2010 fu condannato a sei anni di carcere, pena che fu poi ridotta a un anno.
Il dissidente Rasoulouf, così come Jafar Panahi con il suo This is not a film nel 2011, non si è però mai fatto intimorire dagli impedimenti delle autorità iraniane e con There Is No Evil non allenta per niente la presa sulla critica alla situazione politica del Paese.
Il film è composto da quattro storie che affrontano il tema della pena di morte in Iran, correlato fortemente al ruolo della leva militare obbligatoria per i giovani. L’opera oltre a riportare la denuncia delle esecuzioni che, come scrive Amnesty International, erano arrivate a 483 nel 2020 in tutto il mondo e anche se il numero era più basso degli anni precedenti l’Iran si posizionava al secondo posto dopo la Cina in esecuzioni effettuate con processi iniqui. Il male non esiste è anche una storia di relazioni e dilemmi intimi, di conti da fare con se stessi e con gli altri, di responsabilità individuali e collettive.
Nel primo capitolo, omonimo al titolo del film, assistiamo alla routine giornaliera di Heshmat, un marito e un padre apparentemente innocente (o nonostante tutto innocente?) di cui spetta a noi decidere la gravità delle sue azioni dopo una scena agghiacciante e potente girata a regola d’arte, che non fa certo pensare a una piccola produzione con la censura alle calcagna come è chiaro sia stato invece per Taxi Teheran di Panahi, che scelse di girare il suo film prevalentemente in automobile.
Mohammad Rasoulof va dritto al punto: il film è a fuoco; la nitidezza dei frammenti immagine ne è la testimonianza; il montaggio quasi invisibile e la scelta di una scrittura chiara fanno sì che lo spettatore si immedesimi nei personaggi. Il risultato è quello di un’incredibile suspense che al termine di ognuna delle quattro storie suscita forti reazioni nel pubblico: lo spettatore arriva a interrogarsi su quale sia “il male” che non esiste.
nIl regista accompagna al tema della leva obbligatoria quello delle esecuzioni aprendo due questioni fondamentali che creano conflitti interni al film e interiori ai protagonisti: quello del dovere individuale e quello della morale sull’importanza del dire “no” ad un sistema ingiusto. È così che Pouya, un ragazzo in servizio militare presso un carcere, quando gli viene commissionato il dovere di spostare lo sgabello sotto ai piedi di un condannato a morte per impiccagione, deciderà di salvaguardare la sua morale e imbracciando il fucile riuscirà a scappare dalla prigione per raggiungere la ragazza con la quale programmava già da tempo di lasciare l’Iran. La facilità con la quale si può descrivere questa scena però non è comparabile alla complessità del turbine di relazioni e responsabilità alle quali assistiamo durante le sequenze del capitolo.
I fatti aspettano un giudizio anche nell’ultimo episodio (Kiss me) in cui un uomo, Bahram, in passato dovette decidere tra l’essere un padre o essere un assassino e nel presente sceglie di essere una persona innocente in fin di vita al cospetto della figlia.
Nonostante ogni storia porti l’esperienza di punti di vista diversi, le conseguenze devastanti sembrano essere sempre le stesse ed è come se Rasoulof chiedesse al pubblico cosa avrebbe fatto al posto dei suoi personaggi e come si sarebbe messo in discussione: se Javad, nella terza delle quattro storie, non avesse avuto tre giorni liberi per andare a chiedere alla sua ragazza di sposarlo non si sarebbe macchiato di un crimine che per qualche secondo pensiamo possa scatenare anche un suo stesso suicidio.
Molto interessante è anche la scelta della colonna sonora: “Bella ciao” nella versione di Milva conclude scene dai risvolti dolorosi ma allo stesso tempo porta nuova speranza, come nella sequenza finale in cui si ha l’impressione di vedere uno spiraglio di luce in mezzo a tutto questo dolore.
A questo punto è concesso chiedersi come abbia fatto Rasoulof a dirigere questo film in veste di regista dissidente e partigiano con alle costole le autorità iraniane che già lo avevano fermato e condannato in più occasioni. Le dinamiche concrete delle riprese non le sappiamo ma lo stesso regista affermò che la produzione non fu affatto semplice. Al progetto parteciparono anche la tedesca Cosmopol Film e la ceca Europe Media Nest. I film di Mohammad Rasoulof non escono in Iran ma Il male non esiste è diventato subito un caso politico, l’ennesimo del cinema iraniano, e a chi lo ha accusato di ricostruzioni non vicine alla realtà riguardo i fatti messi in scena lui ha risposto durante la videochiamata in diretta alla Berlinale con la figlia dicendo: «Il mio film è contro chi fugge ai compiti imposti dal regime e si assume la responsabilità delle proprie azioni».
Erika Nizzoli