C’era una volta in Anatolia
Una colonna di macchine nell’imbrunire delle steppe anatoliche, un assassino e suo fratello scortati dalla polizia alla ricerca di un corpo che nemmeno loro sanno (o fingono di non sapere) dove sia. La trama del film ruota attorno alla ricerca di un corpo tra la campagna turca in una lunga e fredda notte sferzata dal vento. Al suo settimo film da regista Nuri Bilge Ceylan scrive, dirige e produce l’ennesimo film di altissimo livello dopo Uzak e Le tre scimmie, un film tremendamente lento ma immensamente profondo.
Con una fotografia splendida fatta di bui e luci nelle tenebre, una regia ottima focalizzata sui campi lunghi e i campi medi, volta a rendere il senso di smarrimento dei personaggi nella natura anatolica, e grazie all’assenza di colonna sonora (solo i dialoghi tra i personaggi e il frinire dei grilli interrompono il silenzio della notte), il film ti stranisce e coinvolge allo stesso tempo. In tutto questo silenzio i personaggi coi loro soliloqui e dialoghi cercano di colmare il tempo in una missione di cui nessuno sembra interessarsi. La ricerca è vissuta come una scocciatura e il continuo divagare dato dall’assenza di informazioni da parte dell’assassino diviene ben presto frustrante: si noterà presto la netta distinzione tra il cupo silenzio di Kenan, l’assassino, e il tentativo di parlare del nulla da parte dei poliziotti che lo scortano.
La notte e la steppa sono un ponte verso la confessione del proprio passato e la ricerca del cadavere diventa per il convoglio la ricerca di sé stessi: a emergere tra tutti i personaggi sono il medico del gruppo, il dottor Cemal, incaricato di fare l’autopsia sul corpo una volta trovato, e il procuratore Nusret, interpretato magistralmente da Taner Birsel (l’attore in questo film viene spesso paragonato a Clarke Gable ma qualcosa lo fa sembrare molto più simile a Giovanni Falcone). I due uomini, guardando passivamente e con biasimo la grottesca ricerca del cadavere da parte dei poliziotti, inizieranno una confessione riguardo la morte di una donna deceduta esattamente il giorno in cui aveva intenzione di morire: per il medico si tratta di un suicidio ma il procuratore sembra non voler accettare quella versione manifestando un certo coinvolgimento emotivo con la vicenda.
Il film si apre con una discussione tra tre uomini filmata dall’esterno attraverso un vetro sporco, esclusa questa saranno tre le ambientazioni preponderanti del film: la steppa anatolica, un piccolo villaggio di campagna e la città a cui faranno ritorno nel terzo atto del lungometraggio. Il buio e la cupezza notturna ci abbandonano solamente nel finale e ci accompagnano lentamente lungo più di due ore e mezza in un film in cui le pause e le attese, il prendersi i propri tempi sono l’elemento cardine della messa in scena. Un film contemplativo costruito su tempi dilatati e sull’interiorità di uomini soli nella notte in attesa della tempesta. Il testo cinematografico è quasi un romanzo tra il tragico e il comico in cui l’inadeguatezza umana si scontra con la realtà.
Luigi Toninelli