Il cinema libanese: storia di un’industria a singhiozzi

Il cinema libanese ha oltre cento anni, la sua storia, tuttavia, ha visto sia momenti di grande floridità che momenti di estrema cupezza: il Paese dei Cedri infatti, ha subito e si è reso protagonista di alcune delle pagine più importanti della storia del Novecento. Proprio per questo il suo cinema è stato fortemente condizionato dalla situazione interna al paese, dal contesto regionale e continuamente esposto all’influenza occidentale.

La storia del cinema libanese ha avuto fin dai suoi albori forti legami con la storia del cinema mondiale e particolarmente con quella francese: già negli anni Ottanta dell’Ottocento quando i Fratelli Lumière decisero di mostrare le loro opere in giro per il mondo, ebbero modo di visitare la città di Beirut e, solo qualche anno dopo, nel 1909, fu aperto il primo teatro cinematografico nella città da parte dei Fratelli Pathé. È però solo nel 1929 che venne prodotto il primo film libanese dal titolo The Adventures of Elias Mabrouk (Muġāmarāt Ilyās Mabrūk), a dirigerlo fu l’immigrato italiano Jordano Pidutti. Questo film, girato e montato nel primo laboratorio cinematografico libanese, creato nel 1925 da parte dello stesso Pidutti, venne proiettato nei cinema solamente nel 1932 per poi scomparire senza lasciare traccia di sé, tanto che oggi è impossibile reperirne una copia.

La prima compagnia cinematografica libanese, la Lumnar Film Production, nacque nel 1933 grazie al finanziamento di Herta Gargour. Dopo aver raggiunto un accordo con la francese Pathé Studios, le maestranze libanesi vennero formate direttamente nel paese europeo prima di tornare in Libano a lavorare con un bagaglio di competenze molto più consolidato. Da questa collaborazione tra le maestranze libanesi e le scuole d’arte europee (va sottolineato come al tempo il Libano fosse sotto il protettorato francese, a seguito del mandato ottenuto dalla Società delle Nazioni) nacque il primo film libanese in lingua araba Amongst the Temples of Baalbak (Bayna hayākil Baʽalbak) diretto da Julio De Luca e Karam Boustany. Nonostante questi primi tentativi, il cinema libanese continuò ad avere un mercato poco florido e gran parte dei lungometraggi prodotti fino alla fine degli anni Cinquanta si rivelarono degli insuccessi commerciali che minano fortemente la stabilità della nascente industria cinematografica libanese.

Solo nel 1958 il film Ilà ayna ottenne un discreto successo, anche grazie alla proiezione al Festival di Cannes che lo legittimò internazionalmente. La mancanza di interesse verso il cinema libanese andò di pari passo col grande successo del cinema egiziano e all’affermarsi del suo dialetto come simbolo mediale all’interno di tutto il mondo arabo, cosa che sminuì le produzioni in dialetto libanese. Un altro grosso problema per il cinema libanese in quegli anni fu la censura da parte degli altri paesi arabi che preferirono film egiziani con storie e ideali più consoni ai loro standard da proporre al pubblico delle neonate nazioni indipendenti. Un punto di svolta per l’industria libanese vi fu a seguito della repentina nazionalizzazione egiziana da parte di Nasser. Un numero sempre maggiore di artisti provenienti dall’Egitto si indirizzarono verso il Libano e tra gli anni Cinquanta e Sessanta e diedero un forte impulso all’industria del Paese dei Cedri in quella fase che viene chiamata “età d’oro”. Furono infatti molti i dissidenti e gli artisti che faticarono a trovare spazio in Egitto e che trovarono uno sfogo alla loro arte in Libano. In questa fase storica vennero aperti nuovi studios come il Baalbek Studio o il Chammas Studio, aumentò il supporto governativo che arrivò a fondare il National Center for Cinema and Television, nacquero inoltre le prime unioni sindacali dei produttori, degli attori e dei registi e l’intera industria ne risentì positivamente arrivando a produrre cento film tra gli anni 1963-1970, di cui è essenziale sottolineare come 54 fossero in dialetto egiziano.

Tra gli anni Sessanta e Settanta infatti il cinema libanese fu in grado di competere con “la Hollywood sul Nilo”, cooperando a stretto contatto con gli artisti egiziani e cogliendo con perspicacia il gusto cinematografico arabo. Nel contesto del cinema panarabo, è utile ricordare inoltre come tra gli anni Quaranta e Cinquanta i produttori libanesi diedero anche un forte impulso allo sviluppo del cinema nazionale iracheno. Dopo un primo declino a seguito della Guerra dei Sei Giorni del 1967, che portò le maestranze egiziane a tornare a produrre in patria e che causò un aspro conflitto tra l’industria libanese e quella siriana, negli anni Settanta un gran numero di registi tornarono in Libano dopo essere stati a studiare in Europa. Questo rientro in patria portò nuova linfa al cinema nazionale. Tra i tanti vale la pena ricordare Jean-Claude Codsi, Borhan Alawiyeh ed il compianto prematuramente Maroun Baghdadi; questi artisti con lo scoppio della guerra civile nel 1975 iniziarono a documentare la violenza del conflitto. La decisione di dedicarsi al documentario fu dettata sia dalla tragica situazione in cui versava il loro paese (e dalla necessità di documentarla) ma fu dovuta anche alla difficoltà nel reperire i fondi per produrre film originali sicuramente più dispendiosi dei documentari.

La guerra portò alla distruzione degli studios e all’impossibilità di muoversi liberamente sul territorio libanese: la capitale venne divisa in due zone non più comunicanti tra loro e a causa di questa quasi ermetica divisione anche le sale, che venivano abitualmente utilizzate da tutta la popolazione indistintamente, si trovarono confinate o nella Beirut occidentale o nella Beirut orientale perdendo metà del proprio pubblico e creando la necessità di costruire nuove sale laddove non vi erano. Nacquero quindi nuove sale inizialmente ricavate da una conversione dei teatri esistenti, ma in questo momento storico in cui uscire di casa poteva rivelarsi estremamente pericoloso, fu soprattutto la televisione e quindi l’home video ad emergere in maniera preponderante lasciando al cinema da sala un ruolo secondario. Il cinema commerciale in questi anni la fece da padrone e a dominare nelle vendite furono le imitazioni del cinema americano, volgarmente chiamato B-movie, e di quello egiziano dal punto di vista stilistico, mantenendo però il dialetto libanese come lingua principale. Registi come Samir al-Ghoussaini e Youssef Charafal-Din rappresentarono la punta di diamante di questo movimento incoraggiato dai finanziatori nazionali che relegò ad un ruolo secondario coloro che cercavano di mettere in pratica un cinema più sperimentale. Questi ultimi, infatti, furono molto spesso costretti a scendere a patti coi loro finanziatori poco avvezzi a conoscere ciò che finanziavano e poco interessati alla qualità di ciò che proponevano.

Accanto a una difficoltà di accaparramento dei fondi emerse anche il problema della censura politica che i registi furono costretti ad affrontare: artisti come Maroun Baghdadi e Samir Nasri videro in questi anni una continua censura nei confronti dei loro film da parte delle autorità che di volta in volta ottenevano il controllo sul territorio. Spesso inoltre, subirono anche un’errata interpretazione da parte dei partiti politici/milizie: ne fu un esempio Maʿraka di Nasri, uno dei pochi film libanesi ambientati nel sud del paese e che racconta la storia della resistenza sciita contro Israele, strumentalizzato dai partiti politici, soprattutto da parte di quelli sciiti e utilizzato come propaganda a fini politici.

Gli anni Novanta iniziarono in salita per il Libano, tutto era stato distrutto con la guerra, gli studi di produzione vennero affittati alle aziende televisive e la mancanza di fondi in favore dei giovani registi costrinse questi ultimi a cercare finanziamenti all’estero, diventarono quindi sempre più importanti le co-produzioni europee: tutti i film migliori di questi anni furono infatti il prodotto derivante da uno sforzo collettivo che vide una forte partecipazione da parte delle compagnie produttive europee. In questi anni emerse lentamente come tematica principale dei film prodotti e portati sul grande schermo quella della guerra e dell’alienazione alla religione, quest’ultima infatti, emerse sempre più come un problema in grado di minare all’unità nazionale libanese favorendo il confessionalismo.

Dopo gli accordi di Ta’if, che sancirono la progressiva fine della guerra civile, il Libano mostrò la necessità di passare oltre gli anni bui della propria storia: già agli inizi degli anni Novanta film come Once Upon a Time, Beirut (Kān yā mā Kān, Bayrūt 1994) di Jocelyne Saab o The Tornado (Al-ʿIṣār 1992) di Samir Habchi misero in mostra il ritorno ad un cinema di spessore e socialmente impegnato facendo ben sperare in una rinascita dell’industria. Appena un anno dopo, l’11 dicembre 1993, morì cadendo dalle scale il più promettente cineasta libanese Maroun Baghdadi privando il cinema libanese del suo più importante astro nascente.

Si dovette attendere il 1998 perché questa rinascita avesse luogo: nel 1998, infatti, quando in maniera del tutto inaspettata un regista giovane e sconosciuto fece il suo ingresso a pieno titolo nel panorama cinematografico libanese. In quell’anno Ziad Doueiri presenta il suo primo film West Beirut (Bayrūt al-ġarbiyya), destinato a divenire il capostipite di quello che Khatib definisce come “il periodo della Rinascita”, la motrice di un cinema capace di essere visto ampiamente in patria superando l’esogeno cinema egiziano ed in grado di essere premiato nei più grandi Festival cinematografici del mondo.

Secondo Khatib la storia del cinema libanese, a partire dalla guerra civile, può essere quindi suddivisa in tre momenti storici ben definiti: la prima che fa capo al 1975 con l’inizio della guerra e la difficoltà di dirigere ed ancor più di distribuire i propri film, la seconda che riguarda gli anni ’90 in cui cominciano ad emergere alcuni lungometraggi art house e la terza a seguito dell’uscita del primo lavoro di Ziad Doueiri, quindi a partire dal 1998, che la stessa autrice chiama appunto “rinascita”. Grazie all’impulso portato avanti da Ziad Doueiri e al successo del suo film, gli anni Duemila sono stati un vero e proprio periodo florido per la nuova cinematografia libanese. La qualità dei film all’inizio del secolo era nettamente migliorata, i lungometraggi divennero più sofisticati, le sceneggiature migliori ed i Festival internazionali iniziarono a premiare il lavoro della nuova generazione di registi. In questi anni usciranno film come Bosta (Būsṭa 2005) di Philippe Aractingi o Stray Bullet (Raṣāṣa ṭāyša 2010) di Georges Hachemes che, oltre ad essere grandi successi in patria, riuscirono anche a conquistare il mercato internazionale. Questi film molto spesso raccontano tematiche legate alla guerra civile ma con uno sguardo di speranza, soprattutto per le nuove generazioni. Nel 2007 a emergere e dare nuova linfa al cinema libanese vi fu l’esordio di Nadine Labaki con il suo Caramel (Sukkar banāt) che, a fronte di un budget di un milione e 600 mila dollari, incassò oltre tredici milioni di dollari in tutto il mondo e divenne la portavoce del cinema libanese nel mondo.

Oggi il cinema libanese vive un momento positivo con Ziad Doueiri e Nadine Labaki a fare da apripista ad altri registi meno conosciuti come Oualid Mouaness che ha esordito nel 2019 con 1982, Philippe Aractingi (Bosta, Sotto le Bombe), Vatche Boulghourjian (Tramontane) e la coppia Joana Hadjithomas e Khalil Joreige (The Lebanese Rocket Society). Molti registi trovano ancora oggi ispirazione nei traumi della guerra civile ma affrontano la tematica con la prospettiva di superare i drammi e le violenze passate e cercare di raggiungere una coesistenza coi traumi vissuti e/o la pacificazione della società. Molti dei film precedentemente citati si pongono questi obiettivi, i più famosi tra questi sono sicuramente L’insulto di Ziad Doueiri o E ora dove andiamo? di Nadine Labaki.

Luigi Toninelli

Fonti:

  • ARABI, AFIF (1996), “The History of Lebanese Cinema 1929-1979: An Analytical Study of The Evolution and the Development of Lebanese Cinema”, Columbus, HO, Ohio State University.
  • KHATIB, LINA (2008), “Lebanese Cinema: Imagining the Civil War and Beyond”, London, I.B.Tauris.
  • SHAFIK, VIOLA (2007) [1998], Arab Cinema: History and Cultural Identity, Cairo, “American University in Cairo Press”.
  • TRABOULSI, FAWWAZ (2012), “A History of Modern Lebanon”, London, Pluto Press.

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