Donne, sport e Islam

Ogni essere umano ha il diritto fondamentale all’educazione fisica, all’attività fisica e allo sport, senza discriminazione sulla base di origine etnica, genere, orientamento sessuale, lingua, religione, opinione politica o di altra natura, origine nazionale o sociale, economica o qualsiasi altra base” è quanto afferma la Carta internazionale per lo Sport dell’UNESCO, eppure resta evidente che nell’ambiente sportivo sia, nella maggior parte dei casi, il patriarcato a prevalere, anche nei paesi dove le donne hanno pari diritti agli uomini: sin dai primi giochi olimpici dove non era ammessa la partecipazione delle donne alle competizioni (e nemmeno l’assistere da semplici spettatrici), fino ad oggi, specialmente nei casi in cui alcuni dettami religiosi vanno a scontrarsi con la pratica sportiva.

Essere donna e praticare sport è spesso una sfida nella quale si deve riuscire a far conciliare l’attività fisica con la propria identità etnica, precetti religiosi e convenzioni sociali: le donne che sfidano l’ideale della femminilità praticando sport sono spesso sanzionate o perseguitate per via della loro scelta.

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Uno dei casi più eclatanti fu quello che vide protagonista Hassiba Boulmerka durante l’edizione dei giochi di Seoul del 1998: fu la prima donna algerina a vincere un oro olimpico, correndo a gambe nude e con il capo scoperto di fronte a migliaia di spettatori. Per questo il Fronte di Salvezza Islamico, gruppo integralista islamico attivo nel pieno del decennio nero algerino, la accusò di aver offeso la religione islamica ed emise un kofr, una pubblica sconfessione della donna dalle moschee algerine nella giornata del venerdì, l’equivalente musulmano della domenica dei cristiani.

Allenarsi in Algeria era ormai diventato troppo pericoloso, motivo per cui fu costretta a continuare la sua preparazione atletica a Berlino.

Hassiba Boulmerka che taglia il traguardo dei 1500 mt (fonte immagine: gariwo.net)

Altro caso peculiare fu quello della judoka saudita Wodjan Shaherkani, alla quale venne chiesto di gareggiare a capo scoperto dalla Federazione Internazionale di Judo (Ljf). Il motivo della richiesta era dovuta, a detta della Federazione, dalla pericolosità del velo, il quale prevede anche la copertura di collo e spalle: nel corso della gara la Shahrekani avrebbe potuto compiere delle mosse pericolose per la sua salute.
Ciò suscitò il disappunto della delegazione saudita, subito pronta a ritirare l’atleta dalle competizioni: Ljf e il Comitato Olimpico trovarono però un accordo, riuscendo a far gareggiare la judoka con un hijab speciale prodotto in Olanda e riconosciuto dalla Fifa, che si chiude con un velcro e permette quindi una rapida apertura nel caso in cui venga tirato.

La domanda sorge spontanea: lo sport per le donne nell’Islam è permesso o vietato? è Halal o Haram?

Non essendoci una vera e propria regolamentazione religiosa e non facendo capo a nessuna istituzione centrale (come nel caso della Chiesa Cattolica), ma piuttosto ad una serie di norme morali che variano da paese a paese e dal loro modo di interpretarle, rispondere non è così semplice.

Il numero crescente di iscrizioni e medaglie olimpiche delle atlete arabe, suggerirebbe di no. Leggendo il Corano, sembra però difficile riuscire a conciliare l’attività fisica, halal, con la demonizzazione del corpo, haram: è evidente che alcuni dei comportamenti legati alla pratica sportiva (quali mostrare il proprio corpo, il tifo scalmanato, le riprese televisive…), indispettiscono la comunità islamica e si scontrano con l’intransigenza religiosa. Tuttavia, c’è chi afferma che il Corano stesso raccomanda l’attività fisica ad entrambi i sessi, dovend0 comunque prestare attenzione nel dedicare allo sport il giusto tempo, senza sfociare nella pigrizia ma nemmeno lasciarsi sedurre dagli eccessi.
Nel Corano e negli Hadith (i detti del Profeta), alle donne vengono concessi ampi diritti sociali, politici ed economici e addirittura vengono suggerite le discipline migliori da praticare: il tiro con l’arco, il nuoto, la corsa e la lotta sono tutti ritenuti sani esercizi propedeutici al controllo della volontà.

Inoltre, tra coloro che considerano l’Islam una fonte di identificazione più importante dell’etnia, essere fisicamente attivi è importante per via degli aspetti sanitari raccomandati dalla religione stessa.

«Non è una cosa da donne», «Obbliga a scoprirsi» sono alcuni tra i pregiudizi più diffusi che impediscono anche alle più giovani di appassionarsi a un’attività fisica, tutti luoghi comuni che limitano la partecipazione delle donne musulmane allo sport, la paura della “defeminizzazione” del loro corpo e della loro immagine, di non rappresentare a pieno lo stereotipo della femminilità.

Come già detto, il Corano giustifica l’attività fisica se condotta nel quadro dell’Islam: devono essere seguite determinate regole quali, ad esempio, abiti più modesti rispetto a quelli che di solito vengono promossi per lo sport internazionale, l’eventuale astensione dall’attività durante i periodi di digiuno e spazi separati per i due sessi.

L’importanza del rispetto dei bisogni religiosi e della creazione di un ambiente in cui le donne musulmane possano praticare attività sportiva senza trasgredire i precetti religiosi sono sicuramente elementi da tenere in considerazione per continuare a fare passi avanti in direzione dell’emancipazione: tra le prime “big” a dare voce alla causa c’è stata la multinazionale Nike, realizzando nel 2017 un hijab in poliestere elastico e traspirante, utilizzato per la prima volta alle Olimpiadi invernali del 2018.

La partecipazione ad eventi sportivi internazionali e atti di coraggio come quello di Hassiba, l’impegno verso la causa di marchi con grande visibilità come Nike, hanno pian piano permesso alle atlete musulmane di abbattere i pregiudizi della società islamica, e lottare per creare nuove opportunità future.

Persino i paesi islamici più conservatori sembrano aprire le loro frontiere: le Olimpiadi del 2016 hanno visto una presenza femminile importante anche da parte di donne musulmane, in numero maggiore rispetto agli altri anni, le quali si sono distinte in attività agonistiche spesso associate dal pensiero tradizionale all’universo maschile.

Inoltre, quattro donne saudite hanno potuto rappresentare la loro nazione: è stato un progresso impressionante considerando che fino al 2018 in Arabia Saudita non esistevano palestre femminili (tutt’oggi continuano ad essere vietate le palestre frequentate sia da donne che da uomini, e rimangono comunque poche quelle riservate alle donne), e che il paese compete con l’Iran nel limitare l’accesso femminile al mondo dello sport, ma nonostante la fatwa emessa da un importante Imam, la famiglia reale saudita permise loro di competere.

E’ però vero che poterono gareggiare solo a patto di indossare l’hijab, nel pieno rispetto delle leggi islamiche, e che la concessione riservata solamente ad un limitato numero di atlete non abbia risolto il problema: la sfida per difendere la loro libertà sportiva è ancora lunga, basti pensare a qualche mese fa, quando alle olimpiadi di Tokyo il teologo musulmano Ishan Senocak ha attaccato su Twitter la squadra di pallavolo femminile turca, poiché reputata poco casta in divisa da volley: «Voi siete figlie di madri che si sono astenute dal mostrare il loro naso per pudore, non siate vittime della cultura popolare. Siete la nostra speranza e la nostra preghiera». O l’ancora più recente e tragico caso della pallavolista afghana, decapitata dai talebani perché contraria nel lasciare la sua squadra.

«Che cosa diranno di te?» chiede la voce narrante di uno spot Nike nel quale ragazze di tutto il Medio Oriente corrono, nuotano, vanno in skateboard e fanno parkour, mentre un uomo le guarda con disapprovazione: “Forse diranno che sei la prossima campionessa.”

Ed è proprio questo l’obiettivo che ci auguriamo verrà presto raggiunto, e che la religione non sia un freno ma piuttosto un modo per valorizzare la propria culturalità e persona.

Alessandra Soldi


Fonti

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