Sovranità alimentare: dove giustizia e cibo si incontrano

“Produciamo ciò di cui abbiamo bisogno, consumiamo quello che produciamo”
Thomas Sankara

La questione della sovranità alimentare è oggi al centro del dibattito sulle strategie da perseguire per assicurare l’accesso al cibo su scala globale e lo sradicamento della fame nel mondo, obiettivi da anni riconosciuti come fondamentali nelle agende di sviluppo globali.

Tuttavia, le politiche neoliberali adottate a partire dagli anni ’90 nel settore agricolo e nella produzione alimentare hanno contribuito a intensificare ulteriormente le disuguaglianze tra il Nord e il Sud del mondo. Attualmente, multinazionali straniere, potenti élite locali e grandi catene di produzione dominano l’industria alimentare nei paesi del Medio Oriente e del Nord Africa (MENA).

Nonostante il modello neoliberale fosse stato presentato dall’Occidente come un approccio di sviluppo essenziale per migliorare le condizioni economiche e sociali dei paesi del Sud del mondo, i tentativi di “modernizzare” il settore agricolo e di integrare le economie dei paesi arabi nell’economia globale hanno in realtà provocato notevoli danni alle terre, alle popolazioni e alle economie dei paesi arabi stessi. Questo processo ha creato una forma di “colonialismo agricolo” che ha contribuito all’incremento della povertà nelle zone rurali e all’accentuazione delle disuguaglianze nella distribuzione delle terre, così come nell’accesso alle risorse naturali in una regione già colpita dal cambiamento climatico e da una crescita demografica significativa.

Nel complesso, gli interventi promossi dalle organizzazioni internazionali volti ad assicurare la sicurezza alimentare nell’area MENA sembrano offrire insufficienti soluzioni: investono su una produzione agricola rivolta a soddisfare le richieste dei mercati europei, rendendo i paesi arabi fortemente dipendenti dalle importazioni, sfruttandone risorse e manodopera.

L’attuale sistema alimentare non solo priva gli abitanti e le popolazioni rurali del loro diritto al cibo, ma concentra le ricchezze nelle mani dei pochi attori che monopolizzano l’intero settore.

Il neoliberalismo e l’agribusiness

Se negli anni ‘50 molti paesi dell’area MENA liberati dal colonialismo francese ed inglese si posero come obiettivo quello dell’autosufficienza alimentare e attuarono politiche di redistribuzione delle terre, negli anni ‘70 e ‘80 il percorso fu inverso.

La riorganizzazione della filiera agroalimentare in senso neoliberale trovò la sua realizzazione tramite l’ascesa delle grandi corporation dell’agribusiness, un sistema di produzione di tipo verticale controllato da grandi retailer (ad esempio le catene di supermercati) basato su una maggior efficienza produttiva rivolta all’export, la modernizzazione dei sistemi di produzione e il fenomeno del “land grabbing”, ovvero di espropriazione e privatizzazione delle terre. Nonostante l’agricoltura continui ad essere una fonte di impiego primaria per i paesi nordafricani, gli accordi di libero scambio con l’Unione Europea, incentivati dalle grandi istituzioni finanziarie internazionali come la Banca Mondiale (BM) e il Fondo Monetario Internazionale (FMI), sembrano essere frutto dei soli interessi delle imprese straniere e dei grandi investitori: specialmente in Tunisia, Marocco e Algeria il governo ha venduto molte delle terre statali ad attori privati, a discapito dei produttori locali che per anni si sono sostenuti con i ricavati provenienti da quelle stesse terre.

Oggi, circa il 3% dei grandi proprietari possiede il 37% delle terre, mentre il 53% dei piccoli proprietari ne possiede solo l’11%.

Il caso del Marocco: l’oro rosso a Souss Massa

In Marocco, l’agricoltura costituisce il 12% del PIL del paese, settore che gioca un ruolo fondamentale, in quanto la popolazione rurale rappresenta circa la metà della popolazione totale e la forza lavorativa impiegata nell’agricoltura equivale a circa il 33% della forza lavorativa totale marocchina. nAnche qui, dagli anni ‘90 le politiche agricole sono state dominate da una sorta di frenesia del libero scambio, senza però accompagnare tale processo di liberalizzazione con delle riforme interne al settore agricolo, di per sé piuttosto debole e non pronto alla competizione con le grandi aziende internazionali.

Privatizzazione delle attività agricole, accesso limitato alle risorse naturali da parte dei contadini locali, continua degradazione dell’ambiente circostante dovuta ai sistemi di produzione intensivi e aumento della dipendenza alimentare per i prodotti base sono solo alcuni tra i risultati del neoliberalismo in Marocco. In un sistema di produzione verticale con standard qualitativi elevati, l’agricoltura familiare e i piccoli produttori vengono messi a dura prova: competere con le grandi aziende agricole private del Nord, favorite dalle agevolazioni finanziarie dettate dagli accordi con l’Unione Europea, non è semplice.

La regione di Souss Massa, situata nel sud est del paese, dagli anni ‘90 è stata uno dei più importanti centri di produzione rivolti all’export del Marocco: più del 90% delle verdure esportate all’Europa e due terzi degli agrumi vengono prodotti in quest’area, dove la disponibilità di manodopera a basso costo, le condizioni climatiche favorevoli, la disponibilità di risorse idriche e la prossimità della regione alle coste spagnole l’hanno resa tra i principali target di investimento dei paesi europei. Il settore dell’agribusiness ha dunque qui trovato terreno fertile, riscontrando ampio successo specialmente nella produzione di pomodori.

A beneficio di chi? Quali sono gli impatti delle politiche attuali?

Gli accordi di libero scambio commerciale tra l’UE e il Marocco fanno sì che ogni anno venga fissata una quota di pomodori massima che possa entrare nell’Unione in base alle esigenze di quest’ultima, ad un prezzo convenzionato e solamente nel periodo compreso tra ottobre e aprile, così da soddisfare le richieste europee anche fuori stagione. Per essere venduti, i pomodori devono rientrare in determinati standard qualitativi, motivo per cui i piccoli produttori agricoli marocchini non riescono a competere contro le serre e le modalità di produzione intensive, ritrovandosi così esclusi dalla catena agroalimentare. Inoltre, nel periodo delle riforme agrarie le terre nella regione di Souss vennero concesse solamente ai grandi proprietari terrieri – a chi acquistava più di 5 ettari – mentre tutti gli altri contadini furono costretti a vendere i propri possedimenti terrieri oppure a indebitarsi per via dell’aumento del prezzo di fertilizzanti, semi e macchinari.

Cosa si nasconde dietro all’acquisto di prodotti fuori stagione?

L’agricoltura intensiva di questi territori ha creato un grande bisogno di manodopera: durante la stagione del raccolto, migliaia di lavoratrici donne vengono assunte per lavorare nelle serre e nelle stazioni di imballaggio. Il fenomeno di femminilizzazione dell’agricoltura comporta salari più bassi e condizioni di lavoro più precarie: gli alti costi di produzione – mantenimento delle serre, maggior utilizzo di fertilizzanti, pesticidi e forza lavoro impiegata – legittimano le grandi aziende a tagliare i costi della manodopera e abbassare gli stipendi. Questo tipo di politiche va anche a discapito dell’ambiente: l’agricoltura nel Souss si affida da anni alle risorse idriche sotterranee, il pompaggio è diventato però eccessivo con l’arrivo del business guidato dal settore privato e l’aumento di serre, e ciò, in un contesto di scarsità d’acqua, accresce maggiormente il diseguale accesso alle risorse idriche.

Tutto ciò avviene nel quadro delle politiche nazionali, volte a favorire i grandi retailers dell’agribusiness così che mantengano le proprie basi produttive nei territori marocchini, sfruttando manodopera, risorse e terreni, ma contribuendo all’innalzamento del PIL nazionale.

Food sovereignty

Alle politiche agricole che propongono l’apertura dei mercati, l’agricoltura intensiva e la dipendenza da importazioni si contrappone il concetto di sovranità alimentare, obiettivo chiave che esplicita le condizioni necessarie per la concreta affermazione del diritto al cibo. Si riferisce al principio dell’autodeterminazione dei popoli e il loro diritto a definire le proprie politiche agricole e alimentari in modo autonomo, senza essere sottoposti a pressioni esterne o a interessi economici stranieri, assicurando il controllo da parte delle comunità local sulle risorse necessarie per la produzione del cibo. Tale concetto si distacca dal metodo delle monocolture e riafferma il principio della diversità dei metodi di produzione, così come il rispetto al significato che le società contadine attribuiscono alla sicurezza alimentare.

Al contrario, il sistema agroalimentare odierno è invece caratterizzato da un grande controsenso: un forte surplus di produzione e spreco di cibo al Nord, ed un Sud che, vedendosi negare l’accesso alle proprie risorse, non è in grado di coprire il proprio fabbisogno alimentare minimo, dimostrando come le politiche neoliberali e l’agribusiness continuino ad ostacolare la possibilità di un accesso equo a cibo e risorse.

Per concludere

Risulta evidente che le riforme in atto rispondono per lo più alle esigenze delle grandi aziende estere e dei Paesi partner industrializzati, e non ai bisogni e alle priorità locali. Revisionare le politiche europee e gli accordi internazionali però non basta: è necessario un cambiamento radicale nella mentalità dei consumatori e della società civile.

Le scelte alimentari dei consumatori occidentali possono effettivamente avere un impatto significativo sulle politiche agricole, essere consapevoli dell’origine degli alimenti che acquistiamo quotidianamente e fare scelte informate, condividere conoscenze sull’importanza di scelte alimentari sostenibili può contribuire a diffondere consapevolezza.

Le nuove politiche dovrebbero in tal senso incoraggiare lo sviluppo di un commercio equo, sostenere le realtà locali per dimostrare che un’alternativa al sistema alimentare globale e la dipendenza da export e import è possibile: è evidente che il raggiungimento di tale scopo non sia semplice, ma resta un importante punto sul quale insistere.

Inoltre, la maggior parte di coloro che contribuiscono alle decisioni politiche o agli studi sulla sovranità alimentare sono attori stranieri spesso scollegati dalle realtà e dalle comunità locali, e i pochi ricercatori che lavorano sull’argomento pubblicano in lingue straniere, raramente in arabo o in dialetti locali: pubblicare studi in lingua araba o dialetto contribuirebbe a diffondere una maggiore consapevolezza all’interno delle comunità locali.

Alessandra Soldi


Fonti

  • “Food Sovereignty and the Environment: an interview with Habib Ayeb”, 12 Aprile 2018, ROAPE. http://roape.net/2018/04/12/food-sovereignty-and-the-environment-an-interview-with-habib-ayeb/
  • Hanieh, Adam (2013), “Capitalism and Agrarian Change in North Africa”, chapter 4, in Lineages of Revolt.
  • Sippel, Sarah Ruth, (2014) “Disrupted Livelihoods? Intensive Agriculture and Labour markets in the Moroccan Souss” in Seasonal Workers in Mediterranean Agriculture: The Social Costs of Eating Fresh, Routledge.
  • World Bank (1997), Rural Development: From Vision to Action.

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