Kafala System: una forma di schiavitù moderna?
Quando si parla di schiavitù moderna, diverse sono le immagini che balenano davanti agli occhi. Per chi vive in Italia, l’esempio forse più vicino e conosciuto è quello del sistema di caporalato, ormai diffuso in diverse regioni all’interno del settore agricolo. Altre immagini che potrebbero essere immediatamente richiamate da questo concetto riguardano bambini con borse e zaini più grandi delle loro spalle, donne che trasportano in testa secchi d’acqua, uomini sporchi di fuliggine mentre estraggono minerali indispensabili alla costruzione della maggior parte dei componenti elettronici presenti sul mercato. E ancora, un sole cocente sulle spalle, schiene piegate verso la terra, sguardi affaticati. Tipologie diversificate di schiavitù moderna che, pur essendo agli occhi di tutti, ancora continuano a conservarsi e riprodursi.
Ma se anche questo tipo di sfruttamento, così evidente, risulta tanto difficile da sconfiggere, quando potremo assistere a un vero cambiamento anche per quei tipi di schiavitù moderna che sono invisibili? Come agire quando tali dinamiche si consumano all’interno delle mura private di una casa all’apparenza normale?
Kafala System è un’espressione che viene utilizzata per indicare un tipo di “contratto” lavorativo che molti osservatori e accademici hanno più volte definito simile a “schiavitù” parte di una “violenza strutturale”. Si tratta di un sistema in uso in particolare nei Paesi del Golfo, in Libano e in minor misura anche in Giordania. Esso prevede l’assunzione per mansioni soprattutto domestiche di lavoratori migranti (prevalentemente donne) provenienti da diversi paesi in “via di sviluppo” (c.d. developing countries), in particolare dell’Asia e del Sud-est Asiatico.
La nascita di questo sistema è da collocare nel più ampio fenomeno di crescita economica che ha coinvolto i paesi del Golfo a metà degli anni ’70, legato al boom del petrolio. In questo contesto infatti, la maggiore disponibilità economica nella regione ha provocato un incremento negli standard di vita e una maggiore domanda di collaboratori domestici.
Pur essendo legato alla crescita economica, tale fenomeno è anche il risultato della complessa ripartizione in classi presente nella regione, che vede nell’affermazione del proprio status sociale, oltre che economico, un pilastro fondamentale.
Il sistema Kafala implica la presenza di due soggetti: lo sponsor (Kafeel, datore di lavoro) e il lavoratore migrante (che nella maggior parte dei casi è una donna). Il termine Kafala deriva dall’arabo kafil, che significa responsabile.
Lo sponsor invita formalmente il lavoratore all’interno del proprio paese, assumendosi la piena responsabilità economica e legale per tutto il periodo della durata del contratto. Il lavoratore migrante da parte sua può entrare legalmente nel suddetto paese dal quale però non potrà più allontanarsi senza l’autorizzazione del suo Kafeel. L’impossibilità di allontanarsi dal paese è assicurata dal ritiro del passaporto e dei documenti del lavoratore da parte del suo sponsor. Il lavoratore è inoltre considerato un ospite temporaneo, senza i diritti legati alla cittadinanza del paese in cui si trova: tutte caratteristiche che lo rendono estremamente vulnerabile alla volontà del suo datore di lavoro. Quest’ultimo infatti ha anche la facoltà di “vendere” il lavoratore a un altro Kafeel senza bisogno di alcun consenso da parte del suo sottoposto: qualora tentasse la fuga per una qualsiasi ragione, sarebbe considerato illegale e quindi potrebbe essere arrestato dalle autorità competenti.
La paga può essere decisa dal datore di lavoro e, pur essendo molto bassa, risulta in molti casi comunque conveniente per il tipo di lavoratore che decide di accettare un contratto di questo tipo. La forte necessità e la condizione di bisogno in cui vertono molte donne residenti in diversi paesi in via di sviluppo, rende questo sistema una macchina perfetta. Non solo si tratta di uno sfruttamento operato su categorie molto fragili di lavoratori, ma attraverso il Kafala System si va ad operare una sorta di intersezionalità dello sfruttamento, andando a selezionare il lavoratore migrante: la posizione già precaria della donna, viene a diventare doppiamente vantaggiosa per il suo sponsor in quanto donna migrante. Non conoscendo la lingua infatti, queste lavoratrici vivono quasi sempre in una condizione di totale isolamento: lontane dal loro paese e dalla loro rete, sono considerate parte della famiglia in cui si recano per prestare servizio e per questo motivo, anche da un punto di vista giuridico, sono considerate parte di quelle proprietà e faccende che la casa e la famiglia gestisce in autonomia, senza la possibilità di alcun intervento da parte dello Stato. Le leggi riguardanti i diritti dei lavoratori non sono perciò utili a garantire loro uno standard di vita e di occupazione adeguato.
L’applicazione di questo sistema presenta ovviamente alcune differenze legislative da paese a paese, cosa che rende anche più difficile riconoscere quanto le leggi che lo regolano garantiscano effettivamente dei diritti più o meno ampi ai lavoratori migranti. Di fatto però, è da diversi anni che istituzioni internazionali come l’Ilo (International Labour Organization) denunciano il sottile limite che sembra separare questi contratti di lavoro legalmente accettati da vere e proprie forme di schiavitù moderna.
Pur non potendo ancora considerare questo sistema di assunzioni e di sfruttamento del lavoro come schiavitù[1], nel corso del tempo, si sono sviluppati movimenti di protesta dal bass0 per cercare di rendere visibili queste realtà e combattere il fenomeno.
Associazioni impegnate nell’attivismo per i diritti dei migranti, hanno organizzato azioni di protesta per sostenere la necessità di un cambiamento e di maggiori tutele per questa categoria di lavoratrici e lavoratori.
La piattaforma Tse Tse Fly Middle East per esempio, ha organizzato diverse iniziative in rete per denunciare che cosa sia il Kafala System. All’interno del loro sito è possibile curiosare tra una selezione di lavori di artisti, illustratori, film-makers e fotografi che hanno creato opere legate al tema dell’esposizione: “This is Kafala“.
L’organizzazione Migrant-Rights.org invece, attiva nei paesi facenti parte del GCC (Gulf Cooperation Council), ha lanciato una campagna di sensibilizzazione che comprende la raccolta di dati e un attento monitoraggio dell’evoluzione della situazione giuridica di questa categoria di lavoratori nella regione. Pur avendo evidenziato dei miglioramenti nell’asset legislativo del Bahrein e del Qatar, il fenomeno rimane attuale e non si limita solo alla zona del Golfo, ma è stato esportato anche in Libano e in altri paesi circostanti. La diffusione geografica del Kafala System e la sua persistenza nonostante le numerose voci che si sono alzate per denunciarne la disumanità, dimostrano che Migrant Rights e tutte le altre associazioni impegnate sul campo, così come la società civile, hanno ancora molta strada da fare.
Elena Sacchi
Note
[1] Nella definizione di schiavitù rientrano oggi lavori forzati, mansioni lavorative non volontarie o non retribuite ma svolte sotto minaccia o costrizioni fisiche. In questo insieme si fanno rientrare anche fenomeni come la prostituzione, la tratta di esseri umani e lo schiavismo sessuale. Tuttavia, secondo l’Ilo, non si possono considerare i lavori sottopagati o condotti in condizioni inadeguate, né fenomeni di costrizione sociale come matrimoni forzati né il traffico di organi.
Tuttavia la Walk Free Foundation propone una concezione del termine più allargata all’interno dell’indice “Global Slavery Index“.
Approfondimenti
- Sulla schiavitù moderna: https://www.lifegate.it/schiavitu-moderna
- Sul Kafala System e il dibattito sul rispetto dei diritti umani: Malaeb, Hanan N. “The “Kafala” System and Human Rights: Time for a Decision.” Arab Law Quarterly 29.4 (2015): 307-42.
- Progetto musicale e sociale Tse Tse Fly Middle East (a non-profit platform that produces and curates live events, radio work, interventions and artworks in the name of human rights and freedom of speech): https://www.tsetseflymiddleeast.org/this-is-kafala.html