Energie rinnovabili: verso un colonialismo energetico in Nord Africa?

di Mariateresa Natuzzi

Il 26 aprile l’Egitto ha annunciato l’inizio dei lavori per la realizzazione del nuovo progetto di energia solare Fares: con i suoi 500 megawatt di capacità, la centrale è destinata a diventare il più grande impianto di energia solare in Africa. Fares si troverà all’interno del governatorato di Aswan, una zona in cui il tasso di povertà supera il 60% e in cui è già presente il Benban Solar Park, la quarta centrale fotovoltaica più grande al mondo. Secondo quanto affermato dalle autorità egiziane, durante il periodo di costruzione saranno creati 2000 posti di lavoro.

L’Egitto non è certo l’unico paese del nord Africa ad investire nelle rinnovabili: in Marocco, nel 2020, la produzione di energia rinnovabile ha raggiunto il 19% della produzione totale di energia, un risultato ben al di sopra di quelli della maggior parte dei paesi europei. In Tunisia, invece, è in programma la costruzione della centrale solare TuNur, un progetto di cui si parla da diversi anni, ma che sembra far fatica a decollare.

La mappa mostra quanto è cresciuta la produzione di energia rinnovabile di un paese nel 2021, confrontandola con la produzione dell’anno precedente: sia l’Egitto che il Marocco hanno aumentato la loro produzione di energia rinnovabile, diversamente da quello che è accaduto in diversi paesi europei.

Chi sta investendo in questi progetti? E perché?

Secondo le informazioni fornite dall’agenzia stampa Agenzia Nova, la centrale Fares sarà realizzata da una società cinese. Nel caso del Benban solar park, invece, il governo egiziano ha potuto contare su finanziamenti provenienti dalla Società finanziaria internazionale, dalla Banca Africana dello sviluppo e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo. Nel caso del Marocco, la centrale Noor, al momento il più grande complesso di energia solare al mondo, è stata costruita da MASEN, un’azienda privata marocchina finanziata con fondi pubblici: i finanziamenti arrivano da diversi attori internazionali, tra cui la Banca Mondiale e la Banca europea per gli investimenti.

Ma perché i grandi attori internazionali guardano al Nord Africa? Come ha affermato la Commissione Europea nel documento A New Agenda for the Mediterranean, la regione del Mediterraneo è uno dei principali hotspot per quanto riguarda il cambiamento climatico e il degrado ambientale. Allo stesso tempo, essa è descritta come la casa delle migliori risorse di energia solare ed eolica: la cooperazione nell’ambito della produzione di energia rinnovabile, quindi, sembra essere opportuna e necessaria. Al momento, la transizione energetica sta avvenendo principalmente attraverso la costruzione di grandi centrali, un modello di transizione che ha degli aspetti problematici, in quanto necessita di grandi spazi spesso non facili da individuare e spesso costosi per gli investitori. E’ qui che viene in aiuto il deserto: descritto come un territorio inospitale e inutilizzato, esso appare come il luogo ideale per la produzione di energia rinnovabile. Un caso emblematico è il documento dell’African Development Bank Group, che ha redatto un piano di gestione ambientale e sociale del BenBan solar park: al suo interno, il sito del progetto è definito come “un territorio completamente vuoto”, che non è mai stato una proprietà privata e che non è oggetto di alcun uso informale.

Tuttavia, Greenpeace MENA e l’Arabic Forum of Alternatives sembrano non pensarla così: nel documento condiviso Different paths to justice, affermano che il progetto di energia solare nel villaggio di Benban è stato realizzato mediante l’espropriazione di terre della popolazione locale. Secondo quanto denunciato dalle organizzazioni, alle comunità locali sono offerti soltanto lavori umili legati al progetto, e gli abitanti non beneficiano dell’energia generata dalla centrale. Insomma, la produzione di energia rinnovabile sembra avvenire senza il coinvolgimento delle comunità e senza che venga messa in atto nessuna azione concreta per migliorare le loro condizioni di vita.

La centrale solare Benban, in Egitto: con una capacità di 1650 MW è la quarta centrale a energia solare più grande al mondo.

La “terra sprecata”: il deserto e il retaggio coloniale

Questa narrativa sulle aree desertiche, considerate terre vuote o comunque inutili, è comune ai paesi del nord Africa e affonda le sue radici nel passato coloniale. Come spiega la geografa Diana K. Davis nel suo articolo Desert “wastes” of the Maghreb: desertification narratives in French colonial environmental history of North Africa, il concetto di desertificazione è stato centrale nel pensiero coloniale sull’ambiente in Nord Africa: il deserto era considerato un prodotto del nomadismo e, in generale, dell’incapacità delle popolazioni nordafricane di avere cura della loro terra. Costruita su inesattezze storiche e scientifiche, questa narrativa ha contribuito a criminalizzare gli stili di vita di una parte delle popolazioni locali, nomadi o seminomadi, e a giustificare le espropriazioni: in Algeria, un’ordinanza del 1846 definiva la terra non coltivata come “terra sprecata”, che quindi poteva essere presa in possesso dai coloni francesi.

Le narrative intorno alle politiche sull’energia rinnovabile sembrano recuperare questa narrazione e descrivere, ancora una volta, le terre desertiche come terre inutili e disabitate, che finalmente possono essere sfruttate. La presenza di grandi centrali spesso costringe gli abitanti a modificare completamente le loro abitudini e il loro rapporto con la terra. È il caso deI Marocco, dove ottomila abitanti del villaggio Noor-Ouarzazate hanno perso l’accesso al pascolo collettivo a causa dell’appropriazione massiccia di terreni per la costruzione del complesso solare Noor. Qui il lavoro di MASEN, la società a cui è stato affidato il progetto, non si limita al funzionamento della centrale: attraverso progetti di sviluppo, questo attore privato si occupa dell’asfaltatura delle strade, della modifica dei programmi scolastici, della promozione dell’agricoltura. Come afferma la ricercatrice Zakia Salime, MASEN agisce come un welfare state di prossimità: una strategia che facilita il controllo sulla popolazione locale, facendola apparire indispensabile; quanto al resto, Salime ha rilevato che la comunità è molto insoddisfatta, dal momento che il lavoro è precario e il degrado ambientale peggiora di anno in anno.

Proprio la prospettiva della creazione di nuovi posti di lavoro, enfatizzata da governi e attori internazionali, tende a deludere le aspettative: se è vero che queste grandi centrali richiedono molta mano d’opera nelle fasi di costruzione, una volta messa in funzione la centrale la quantità di lavoro richiesto si riduce significativamente. Inoltre, i lavori proposti agli abitanti locali sono spesso lavori mal pagati, poiché questi non hanno le competenze tecniche necessarie per accedere alle posizioni più remunerative.

La mancanza di competenze e conoscenze relative al settore energetico è uno dei fattori che contribuisce al verificarsi del colonialismo energetico, espressione con cui il ricercatore algerino Hamouchene indica il riperpetuarsi di dinamiche coloniali nel settore dell’energia.

Il cambiamento climatico non è (soltanto) un fenomeno naturale

Amos Wemanya, senior advisor per le energie rinnovabili del think tank PowerShift Africa, nel numero di aprile di Altreconomia ha sottolineato la necessità di costruire “un sistema in cui gli attori africani siano partner paritari e dove le garanzie sociali e ambientali vengano prese in considerazione, con strutture di governance chiare, trasparenti e rispettose dei diritti umani”. Gli attivisti e i ricercatori che si battono per la giustizia climatica in Nord Africa, spesso silenziati nel dibattito politico, hanno elaborato in questi anni il concetto di giustizia climatica: esso ruota attorno all’idea che il cambiamento climatico non è semplicemente un fenomeno naturale da affrontare scientificamente, ma è un concetto più ampio, profondamente radicato nella storia dei sistemi economici, che prosperano attraverso lo sfruttamento delle risorse naturali, l’espropriazione della terra, e la distruzione dei sistemi ecologici.

In quest’ottica, quindi, le politiche di transizione vanno costruite a partire da una nuova prospettiva, la quale riconosca la responsabilità storica dell’Occidente industrializzato nel causare il riscaldamento globale e prenda in considerazione le vulnerabilità sproporzionate affrontate da alcune nazioni e comunità, a favore di processi di trasformazione e adattamento sociali ed ecologici.

A questo proposito, diversi ricercatori, sindacati e associazioni locali hanno sottolineato che una transizione decentralizzata e sotto il controllo delle comunità locali costituirebbe una soluzione più equa.

Tenere insieme l’urgenza della transizione e la necessità di una transizione giusta rappresenta una delle grandi sfide poste dall’emergenza climatica: la consapevolezza che il deserto non è una terra vuota, e che i diritti dei suoi abitanti vanno protetti e garantiti, è il primo passo necessario in questa direzione.

Mariateresa Natuzzi


Fonti

  • Ben Rouine C., Roche F., ‘Renewable’ energy in Tunisia: an unjust transition, longreads.tni.org, 2022
  • European commission, A New agenda for the Mediterranean – joint communication, 2021
  • GreenPeace MENA and the Arab Forum for Alternatives, Different paths to justice: the case of economy and the environment
  • Hamouchene H., The Struggle for Energy Democracy in the Maghreb, Rosa Luxemburg Stiftung, 2016
  • Nour A. Moharram N., Abdelrahman Tarek A., Mohamed Gaber M., Bayoumi S., Brief review on Egypt’s renewable energy current status and future vision, Energy Reports, 2022
  • Salime Z., Life in the Vicinity of Morocco’s Noor Solar Energy Project, MERIP, 2022

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