Mattone e specchio: lo splendido buio di Ebrahim Golestan
Alcune riviste di critica cinematografica lo definiscono il primo capolavoro moderno del cinema iraniano. Il titolo originale, Khesht va Ayeneh – خشت و آینه , riprende le parole di una poesia di Farid al-Din Attar: “Ciò che i vecchi vedono in un mattone, i giovani vedono in uno specchio”.
Questo è il primo film di finzione diretto da Ebrahim Golestan, noto scrittore e sceneggiatore iraniano, la cui compagna di allora, Forough Farrokhzad diresse un documentario, Khaneh siah ast (The House is Black, 1963) sulla situazione dei lebbrosi in Iran, che vinse premi a livello mondiale. nMattone e specchio ci porta nel cuore di una Teheran talmente buia di cui a volte si riescono a captare solo le luci delle insegne luminose e del traffico claustrofobico nel quale lo spettatore viene inghiottito pochi secondi dopo.
Siamo nell’Iran di Mohammad Reza Pahlavi: Khomeini è appena stato esiliato dopo il fallimento del complotto del 1963. Per queste motivazioni il film subì alcune interruzioni che lo videro uscire solo nel 1965.
È una storia ai limiti della clandestinità in cui la coppia protagonista indaga e indugia non solo sui sentimenti ma anche sulla corruzione e l’instabilità del Paese. Le riprese, con una troupe molto ridotta e una sceneggiatura incompiuta, iniziano nel 1963: per la prima volta in Iran si sperimenta il suono in presa diretta, proprio come Truffaut e Godard con la Nouvelle Vague stavano insegnando in Europa. nIl protagonista, il taxista Hashem, ci conduce in un viaggio a tratti onirico che va dal centro alla periferia della metropoli, dove le notti sono lunghe e le giornate fatte per nascondersi.
Paradossalmente, Taji, una donna che subito capiremo essere l’amante di Hashem, ha paura del buio. Una torcia, che rimane accesa un’intera notte, ci concede uno sguardo sulla vita e le incomprensioni dei due giovani. La speranza ci appare nelle vesti di una neonata, abbandonata pochi istanti prima nel taxi di Hashem, che rimarrà sveglia tutta la notte accanto a loro e alla luce della torcia. Taji insegue e scongiura Hashem, lo supplica di amarla e di capire che quella bambina è il segno della loro unione: la sua immagine rincorrere inesorabilmente l’uomo che «Senza entusiasmo (…) come un morto» sembra non ascoltarla. La donna farà di tutto per ottenere l’adozione della bambina ma resterà sola, in un corridoio semivuoto dell’orfanotrofio, ad aspettare Hashem.
Attraverso tecniche cinematografiche senza precedenti nel cinema persiano, come l’utilizzo dei jump cut in una delle scene iniziali, Ebrahim Golestan ci regala un susseguirsi di vicende a tratti surreali e a tratti scandite da un tempo tangibile e ‘vero’ in cui è difficile intravedere la luce ma il continuo movimento diventa forza motrice della speranza, forza che si muove in una tavolozza di neri che non sono mai stati così scuri nella storia del cinema.
La pellicola è stata restaurata in maniera impeccabile dalla Cineteca di Bologna, che ha riportato alla luce una pietra miliare non solo iraniana ma dell’intera cinematografia mondiale. Nella speranza di una sua proiezione nelle sale è disponibile su Raiplay.
Erika Nizzoli