I grandi “ma” del colonialismo italiano
Parlare di colonialismo italiano ha sempre avuto a che fare con un sapiente utilizzo delle avversative. L’Italia ha partecipato alla spartizione dell’Africa, ma la Francia ha fatto di peggio. Certo, vi è un contenzioso tra Etiopia e Italia per i danni subiti dalla dominazione coloniale italiana, ma l’esperienza coloniale è frutto del fascismo, quindi non appartiene al vero spirito italiano. Le città italiane portano ancora i segni, le statue dell’ideologia che era colonna portante del colonialismo, ma, anche il detto lo dimostra, “italiani brava gente” e di danni non ne abbiamo fatti poi così tanti.
Questa diffusa banalizzazione del fenomeno ha portato nel tempo a una rimozione quasi totale del ruolo dell’Italia all’interno dell’esperienza coloniale europea. Ruolo che, al contrario, ha avuto un impatto profondo sugli equilibri dei paesi interessati dal dominio italiano e che ancora oggi risulta evidente agli occhi di uno sguardo attento alle relazioni “privilegiate” che l’Italia ancora conserva con tali realtà nazionali.
L’esperienza coloniale italiana, in realtà, ha inizio ben prima del fascismo, ed è legata alla sensazione di ritardo percepita da un’Italia da poco unita che aspirava a entrare nel rango delle altre grandi potenze europee. Sarà il governo di Francesco Crispi (anni ’80 e ’90 dell’Ottocento), esponente della Sinistra storica, sostenuto dal ministro degli Esteri Mancini, a dare una svolta alle ambizioni espansionistiche italiane: l’Eritrea, così chiamata da Mancini riprendendo il nome greco del mar Rosso, sarà il primo obiettivo.
La sconfitta di Adua che portò le ispirazioni di Crispi e del governo italiano a ridimensionarsi e a doversi accontentare della “sola” Eritrea è forse uno degli eventi più conosciuti anche tra i banchi di scuola. L’espansione in Somalia e la conquista durante il periodo fascista della tanto agognata Etiopia, diedero una configurazione definitiva l’impero coloniale italiano. Ciò che forse invece risulta meno conosciuto è legato alla presenza italiana in Libia.
L’esperienza coloniale in Libia si è presentata fin da subito come un elemento divisivo all’interno dell’opinione pubblica italiana. Di fatto si trattava forse di uno degli unici territori rimasti a disposizione all’interno di un’Africa già spartita tra influenze ben delineate dopo la tristemente conosciuta Conferenza di Berlino. Se l’Italia voleva far parte dell’esperienza coloniale europea quindi, non poteva far altro che adattarsi.
Da un lato la propaganda a favore dell’occupazione iniziò quindi a costruire un immaginario idilliaco della terra libica, testimoniato da canzoni popolari come “Tripoli bel suol d’amor” (link in fondo all’articolo); dall’altro non mancarono posizioni opposte di chi, come lo storico e politico Gaetano Salvemini, definiva la Libia come uno “scatolone di sabbia”. Quest’ultima posizione si dimostrò minoritaria e nel 1911, con Giolitti al potere, l’esperienza italiana in Libia ebbe inizio.
Tuttavia l’impresa si dimostrò molto meno facile e gloriosa di quello che ci si sarebbe aspettati. Innanzi tutto bisogna ricordare come, quella che oggi viene definita Libia, all’inizio del 1900 fosse invece un territorio molto variegato, con al suo interno esperienze di vita e di organizzazione comunitaria molto diverse da quelle che furono imposte su modello degli Stati nazionali europei dopo la conquista.
La Libia, il cui stesso nome fu dato dagli italiani riprendendo il termine che la geografia classica utilizzava per designare i territori a occidente dell’Egitto, poteva essere divisa in tre regioni differenti, riconoscibili ancora oggi: la Cirenaica, la Tripolitania e il Fezzan.
Il dominio italiano incontrò fin da subito una forte resistenza, radicata in particolar modo nei territori della Cirenaica, dove la confraternita (tariqa in arabo) sufi Senussia (Sanusiyya) era riuscita a organizzare una resistenza che rimase attiva per tutto il periodo di permanenza italiana in Libia.
Man mano che la “pacificazione” dei territori a opera italiana procedeva, la Libia andava configurandosi sempre più come territorio unitario, a opera degli invasori, ma anche per le necessità della resistenza. Vi furono diverse fasi di resistenza al dominio italiano, che cambiò più volte faccia e approccio anche in relazione ai diversi governi in carica in Italia.
Una figura dai contorni epici ricordata nel contesto della resistenza è quella di Omar al Mukhtar, leader della Sanussiyya negli anni Venti. La sua figura carismatica riuscì a costituire un collante e un simbolo della resistenza anche dopo la sua morte, per altro spettacolarizzata davanti a migliaia di libici che furono costretti ad assistere alla sua impiccagione. La sua condanna così come la teatralità della sua esecuzione costituiscono ancora oggi una delle maggiori ferite del colonialismo italiano in Libia. Una ferita forse ancora aperta, come testimoniato da un evento recente riportato anche da alcune testate italiane per il suo forte valore evocativo.
Infatti Omar al-Mukhtar, al di là della sua importanza storica, è ricordato anche per un episodio che ha visto coinvolti nel 2009 l’allora presidente del consiglio Berlusconi e Mu’ammar al-Qadafi (Gheddafi), capo di Stato libico dal 1969.
Quest’ultimo, durante una visita a Roma, portava appuntata sulla divisa una foto del leader della resistenza come una sorta di promemoria del debito che ancora l’Italia aveva aperto nei confronti di una Libia ormai libera e indipendente che non aveva tuttavia dimenticato l’esperienza del colonialismo.
Con la sconfitta militare Italiana durante la Seconda Guerra Mondiale la Libia fu occupata dalle forze britanniche, a eccezione del Fezzan, occupato dai francesi. Vista la complessa eterogeneità della regione e i molteplici interessi in gioco, l’ONU intervenne per trovare un nuovo equilibrio tra i vari attori nell’area. Nel 1951 la Libia diventò infine indipendente, sotto l’autorità del leader della Sanussya Muhammad Idris.
La Libia ha preteso con insistenza un risarcimento morale e materiale per il periodo di dominazione coloniale. Richiesta che sembrava aver avuto un suo punto di svolta con la firma del trattato italo-libico nel 2008, ma che dopo la rivolta scoppiata nel 2011 ha subito una battuta d’arresto. La chiarificazione dei rapporti Italia-Libia rimane quindi in sospeso sotto molti aspetti, soprattutto alla luce del nuovo (ma comunque pervasivo) ruolo dell’Italia in una Libia che diventa ogni giorno più importante, non solo per gli interessi petroliferi di grandi aziende italiane come Eni, ma anche per il suo ruolo nell’arginare il flusso migratorio di cui l’Europa sembra avere oggi così paura.
Elena Sacchi
Per approfondire
Tripoli bel suol d’amor” per approfondire sulla propaganda italiana.